Costi della politica, la Cassazione: l’assenza di giustificativi non è indizio di responsabilità

Pubblicate le motivazioni della sentenza della Corte Suprema che nel marzo scorso ha annullato le condanne di Viérin e Comé e ha confermato 13 responsabilità penali.
Corte di Cassazione.
Cronaca

“Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova” diceva Agatha Christie. Non sembra d’accordo con questa tesi la Cassazione che oggi ha pubblicato le motivazioni della sentenza sui costi della politica. La sesta sezione della Suprema Corte, presieduta da Vincenzo Rotundo, il 30 marzo scorso ha confermato tredici responsabilità penali stabilite nel processo d'Appello sui costi della politica e cancellato integralmente due condanne, quelle di Marco Viérin e Dario Comé.

Ed è proprio su queste ultime due che la Cassazione censura “il ragionamento indiziario posto a base dell’affermazione di responsabilità dei ricorrenti” definendolo “congetturale ed ipotetico avendo conferito valore indiziante a circostanze di fatto prive della necessaria univocità”.

Per la Cassazione “la omogenea entità del versamento mensile” non si può confrontare “se non genericamente” con la “dedotta” inferiorità del contributo rispetto alle effettive spese sostenute. Senza contare che il parametro adottato cozza con l’assoluzione dell’altro componente di Stella Alpina, André Lanièce, “per la sola circostanza della variabilità degli importi”.

Per i giudici infine il “ragionamento incorre nell’errore metodologico quando ascrive significato indiziario all’assenza di giustificativi in un contesto pacificamente verificato nella specie secondo il quale i rimborsi erano erogati sulla base delle note annuali rese dal capogruppo e non già direttamente sulla base della documentazione giustificativa presentata dal singolo consigliere”. In sostanza la Cassazione spiega come venendo a mancare “il quantum dell’illecita appropriazione” non si può determinare “l’oggetto della condotta illecita” e quindi la “illiceità della condotta” che più che dimostrata viene solo “presuntivamente attinta”.

Nelle oltre 43 pagine di motivazioni la Cassazione prima di analizzare caso per caso ribadisce come “sussiste il generale obbligo di giustificazione della spesa secondo le precipue finalità istituzionali”.

"Il valore primario dell'obbligo di dar conto è apprezzabile sul piano contabile -amministrativo – si legge nella sentenza – in quanto il soggetto chiamato a rispondere di una spesa deve poter dare di essa, secondo il sistema, una sicura giustificazione, la cui mancanza integra un profilo di responsabilità". Ma in ambito penale "deve essere provata la concreta appropriazione, cui deve ricollegarsi nella sua materialità l'offensività della condotta, almeno in termini di alterazione del buon andamento della P.A". Citando passate sentenze,  i giudici sottolineano il diverso ruolo svolto dal capogruppo che "riveste la qualifica di pubblico ufficiale" e nel suo ruolo partecipa anche "alla procedura di controllo del vincolo di destinazione dei contributi erogati al gruppo". 

Inoltre deve “escludersi che l’errore del pubblico ufficiale circa le proprie facoltà di disposizione del pubblico denaro per fini diversi da quelli istituzionali possa assumere qualsivoglia efficacia discriminante”. Insomma l’”ignoranza” non esclude “l’elemento soggettivo del reato di peculato”.

Infine per quanto riguarda la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, sollevata da alcune parti, la suprema corte sottolinea come non sia obbligatoria se il giudice “in base al proprio libero convincimento” arrivi “ad una valutazione di colpevolezza attraverso una rilettura degli esisti della prova dichiarata (di cui non ponga in discussione il contenuto o l’attendibilità) valorizzando gli elementi eventualmente trascurati dal primo giudice”.

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