Il casinò di Saint Vincent tra mafia, depistaggi e casi insoluti

Incontro pubblico a St Vincent con Fabio Repici, legale della famiglia di Bruno Caccia, autore di una controinchiesta che getta una nuova luce sulla scalata mafiosa al casinò valdostano.
Roberto Mancini e Fabio Repici
Società

Immaginiamo una partita a carte lunghissima, che si svolge da più di 30 anni. In palio c’è nientemeno che il casinò di Saint Vincent. Una partita talmente ricca di colpi di scena – tra omicidi, autobombe, fughe, arresti, depistaggi dei servizi segreti – da essere quasi impossibile da raccontare. Se non fosse che alcune delle carte da gioco si presentano con sconcertante regolarità, in barba alle più elementari leggi della probabilità: e allora c’è chi bara, e anche il mazzo è truccato.

Questo il tema della terza serata della rassegna “Saint Vincent Cultura”, dal titolo “Selis, Caccia, Borsellino: un filo rosso da Saint Vincent a Palermo?” che si è tenuta venerdì sera. Introdotto dal giornalista Roberto Mancini, Fabio Repici, il legale della famiglia del procuratore Bruno Caccia, ha raccontato al pubblico i retroscena dell’omicidio di Bruno Caccia, assassinato nell’83. La sua controinchiesta ha convinto la Procura di Milano a riaprire il caso: sono emerse tante piste che come frecce luminose puntano nella stessa direzione, verso il Casinò de la Vallée.

Per due ore abbondanti l’avvocato Repici ha allineato efficacemente, con la puntigliosa pignoleria di chi è abituato alle aule dei tribunali più che alle sbrigative tribune mediatiche, una carta dopo l’altra, un nome dopo l’altro. Emerge un disegno generale, che parte dall’82, dall’attentato a Giovanni Selis, pretore di Aosta – la prima autobomba diretta contro un magistrato in Italia, un triste primato valdostano – arriva all’omicidio di Bruno Caccia l’anno successivo e prosegue con una serie di omicidi nell’ambiente dei cambisti del casinò.

Belfiore, un pentito arruolato dal sisde

Il 26 giugno 1983, a Torino, vennero sparati quattordici colpi contro Bruno Caccia, mentre portava a spasso il cane. Inizialmente i sospetti caddero sulle Brigate Rosse – vi furono delle false telefonate di rivendicazione, smentite dagli stessi brigatisti – ma poi si trovò un colpevole ufficiale. Il boss della ‘ndrangheta Domenico Belfiore – ora ai domiciliari per gravi ragioni di salute – fu riconosciuto come il mandante, e ottenne l’ergastolo, anche se gli esecutori materiali rimasero sempre sconosciuti. Ufficialmente Caccia sarebbe stato ucciso perché “inavvicinabile”, ovvero incorruttibile. “L’accusa a Belfiore – ha raccontato Fabio Repici – si basava sulle dichiarazioni di Francesco Miano, del Clan dei Catanesi, operativo a Torino, diventato collaboratore di giustizia.
Prima anomalia: il Sisde – che formalmente non può svolgere direttamente indagini – incaricò Miano di investigare, microregistratore alla mano, all’interno del centro clinico del carcere. Abbiamo così il primo e unico pentito del Sisde, che svolge operazioni di autorità giudiziaria, uno scandalo contro il quale non si è levata neanche una voce”.

Bruno Caccia e Rosario Cattafi

“Studiando le carte del processo – ha spiegato l’avvocato – ci siamo chiesti di cosa si occupasse Caccia appena prima di essere ucciso: del Casinò di Saint Vincent. A maggio, poco più di un mese prima dell’omicidio, la procura di Torino aveva emesso i decreti di perquisizione che hanno portato al sequestro dei conti correnti sia dell’amministrazione della casa da gioco che dei singoli amministratori. Tre i dirigenti al centro delle indagini: Bruno Masi, Paolo Giovannini, Franco Chamonal. Esistono centinaia di pagine che indicano gli affari del Casinò come causale dell’omicidio, ma sono state del tutto inutilizzate al processo, perfino dalla difesa di Belfiore. Carte che legano le indagini a Rosario Cattafi”. Un nome che ricorre frequentemente nella ricostruzione dell’avvocato Repici. Nel 2009, in un’intercettazione, il magistrato Olindo Canali, parlando con un giornalista, ha ricordato quando in casa di Rosario Cattafi fu sequestrato un finto volantino delle Br che rivendicava l’omicidio Caccia (rivendicazione che in realtà avvenne solo telefonicamente: fatto ancora più bizzarro). “Canali era una persona particolarmente informata, nell’85 era uditore del pm Francesco Di Maggio, guarda caso titolare del fascicolo su Caccia, indagato nel processo sulla trattativa Stato-mafia”.

L’attentato a Giovanni Selis

Anche Giovanni Selis stava indagando sul Casinò quando un’autobomba distrusse la sua 500, lasciandolo miracolosamente incolume. “Studiando le carte di Selis – ha proseguito Repici – è emersa una sorpresa: quando ci furono arresti a Saint Vincent, Campione e Sanremo, fu coinvolto anche l’avvocato Valentini – che in un caso minacciò fisicamente Selis affinché archiviasse dei procedimenti contro un cambista – e vennero sequestrati dei documenti: delle conversazioni tra Valentini e Bruno Masi, Amministratore delegato della Sitav, società che aveva la gestione della Casa da gioco di Saint Vincent. Valentini comunicava di avere ricevuto la visita di Rosario Cattafi, il quale asseriva di avere ricevuto da Masi stesso un’autorizzazione per l’ingresso e il prestito di denaro, in cambio di un imprecisato favore. Il Pm Carnevali, che indagò sull’attentato a Selis, raccolse i registri degli alberghi di Saint Vincent: la riviera delle Alpi vantava una presenza mafiosa superiore a Bagheria o Brancaccio. Mafiosi con soldi, e come si sa, pecunia non olet".
Anche la pista dell’esplosivo è interessante: l’attentato a Selis ha la stessa matrice di quello, ad Attilio Dutto, la cui auto saltò in aria nel 1979. “Dutto era un grande imprenditore in affari con Flavio Briatore – all’epoca “porteur” per vari casinò, anche nell’isola caraibica di Saint Martin, dove lavoravano, nel settore, gli emissari della cosca Santapaola”.

Giovanni Selis indicò ai magistrati di Milano, come possibile movente dell’attentato ai suoi danni, proprio le indagini sulla casa da gioco, e in particolare sull’ambiente dei prestasoldi e il rapporto tra questi e l’Ufficio Fidi. Dopo l’omicidio di Caccia Selis si sfogò con i pochi giornalisti che gli diedero retta: “ora non mi prenderanno più per pazzo”. Ancora, dopo il blitz di San Martino operato dalla Guardia di Finanza in tutti i casinò italiani, parlò di “scalata mafiosa al casinò”, e raccontò di una pista unica che univa l’attentato ai suoi danni, il delitto Caccia e l’inchiesta culminata negli arresti.
Selis – nel ritratto che ne ha fatto l’avvocato Repici – ha pagato lo scotto della troppa onestà. Era uno di quelli che all’epoca venivano chiamati “pretori d’assalto”. Isolati, trattati dal loro stesso ambiente come corpi estranei, erano i primi a cadere. Selis fu ritrovato impiccato nel garage di casa, alcuni anni dopo.

Una rete internazionale

“Tra gli anni ’70 e ’80 è nato un unico universo criminale con vari satelliti, la mafia siciliana, quella calabrese, quella marsigliese, ma con una rete di interessi più ampia: secondo risultanze documentali coinvolgeva anche il figlio di Roberto Calvi e i finanziamenti fatti dalla P2 ai casinò, compreso il Méditerranée di Nizza, feudo di Jean Dominique Fratoni, capo mafia corso”. A dirigere le fila, il capomafia catanese Benedetto Santapaola. Rosario Cattafi era stato fatto “uomo d’onore” da Santapaola stesso, ed è stato individuato come tramite nella trattativa Stato – mafia: praticamente un intoccabile. “Rosario ha esordito riciclando i soldi di cosa nostra grazie a soggetti come Gianfranco Ginocchi, legato al gotha dell’imprenditoria e borghesia milanese dell’epoca. Questo il primo nucleo di interessi che si è accaparrato le case da gioco. La scalata mafiosa ai casinò ha utilizzato come canali le ottime liaison con gli apparati deviati: avvocati, magistrati, forze di investigazione e servizi segreti, responsabili di depistaggi su indagini come quelle riguardanti Paolo Borsellino, Bruno Caccia e altri servitori dello Stato”.
 

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