“Io…l’Assassino”: l’esperienza del carcere raccontata da Marco Lentini

Presentato al Csv il testo autobiografico di un ex detenuto, un ritratto doloroso attraverso cui emerge uno spaccato del mondo carcerario italiano. L’autore si è progressivamente emancipato dall’ambiente criminale, assumendosi le proprie responsabilità.
Marco Lentini
Cultura

“Quello che sono adesso è frutto anche del mio passato. Dimenticare le vittime significa che il loro dolore non è servito, per tutta la vita porterò sempre con me ciò che sono stato”.

Quattordici anni di carcere hanno trasformato profondamente Marco Lentini. L’ex detenuto ha raccontato la propria esperienza nel libro “Io…l’Assassino”, presentato al Csv dall’Associazione valdostana volontariato carcerario e dagli insegnanti che lavorano come volontari nella casa circondariale di Brissogne. Come lascia intuire il titolo,  il libro non è un tentativo di auto-assoluzione, quanto una sincera assunzione di responsabilità nei confronti del proprio passato.

Marco Lentini – pseudonimo dietro cui si cela l’autore – è finito in carcere in seguito a un maldestro tentativo di rapina a una gioielleria, conclusosi con la morte del gioielliere. Anche se tecnicamente i colpi di arma da fuoco sono stati esplosi dal complice al momento della fuga, mentre Lentini stava cercando di avviare la moto e la vittima, sopraggiunta di corsa, tentava di bloccarli, l’autore del libro si considera ugualmente un assassino, anche se questa consapevolezza ha impiegato tempo a farsi strada dentro di lui.

“All’inizio – ha raccontato al pubblico presente –  pensavo solamente a me stesso, alla prospettiva di trascorrere il resto dei miei giorni rinchiuso. Per me la morte del gioielliere era qualcosa di astratto, solo con il tempo ho compreso l’impatto delle mie azioni sulle altre persone”.

L’istruzione è stata, per Marco Lentini, un’ancora di salvezza. “Se non fosse per i docenti volontari, che mi hanno motivato a crescere, a leggere, informarmi, approfondire le mie conoscenze, e anche, concretamente, a diplomarmi, ora non sarei qui”. In sala, alla presentazione del libro, erano seduti anche diversi dei suoi ex insegnanti, commossi e soddisfatti.

La decisione di collaborare con la giustizia ha rappresentato un punto di non ritorno. “Sono stato arrestato per la prima volta a 17 anni, e sono cresciuto nell’ambiente della malavita, assorbendone i codici di comportamento. L’omertà è il cardine di questo sistema, e collaborare è fuori discussione. Però – ha aggiunto l’autore – avevo un ergastolo da scontare, e la possibilità di ottenere una riduzione. Alla fine ho deciso di collaborare. Sarei stato comunque, in ogni caso, un traditore. Avevo tradito mio figlio abbandonandolo quando ero fuggito a Malaga per sottrarmi all’arresto, e costringendolo, in seguito, a crescere senza un padre. Alla fine ho tradito i compagni per non tradire nuovamente lui. In seguito ho avuto un forte esaurimento nervoso, culminato in una depressione, perché scelte come queste sono davvero dolorose”.

Marco Lentini, in 14 anni di detenzione, ha conosciuto carceri di tutta Italia, ed è in grado di sfatare alcuni luoghi comuni che circondano l’universo carcerario. “Spesso ho sentito dire che i detenuti non dovrebbero lamentarsi, perché, alloggiati e mantenuti a spese dello Stato, avrebbero perfino la tv. La televisione è spesso additata come simbolo dell’eccessiva indulgenza del sistema. La realtà è un’altra: trascorrere la giornata chiusi in una stanza minuscola e sovraffollata, per lo più a letto, perché mancano gli spazi vitali per muoversi, a contatto forzato con le persone più disparate, rende fortemente aggressivi e insofferenti. Se non ci fosse la televisione a sedare gli animi scoppierebbero continue rivolte, come è avvenuto fino agli anni ‘70”.  

L’inattività costante rende più difficile il reinserimento del detenuto nella società, una volta scontata la pena. “Il carcere è un bozzolo che isola e protegge dall’esterno. Uscire di prigione, dopo tanto tempo, incute paura, oramai non si è più abituati a lavorare, a procurarsi i mezzi per vivere, a relazionarsi con le persone. Anche io, uscendo, ho fatto i conti con molte novità, come l’euro e i telefonini. Ricordo la paura di attraversare la strada, incapace com’ero di calcolare la velocità delle auto. Per mesi ho avuto male agli occhi, perché non ero più abituato a osservare orizzonti vasti, non limitati da muri e sbarre”.

Il sistema carcerario italiano è caratterizzato dal sovraffollamento e dalla difficoltà, per i detenuti, di accedere al lavoro. Alcuni di loro, senza fonti di reddito, non possono permettersi neppure l’acquisto di biancheria e prodotti per l’igiene.

In Spagna, ha raccontato Marco Lentini, la situazione è profondamente diversa. Tutti i detenuti lavorano e percepiscono un normale stipendio. Un quinto della retribuzione serve per le spese del detenuto, un quinto è assegnato al mantenimento della famiglia, un quinto serve all’acquisto di prodotti per la pulizia della cella e l’igiene personale, un quinto finisce su un fondo vincolato a beneficio del detenuto e un quinto, infine, è destinato al risarcimento delle vittime. “E’ un vantaggio sia per il detenuto, che si riabilita attraverso il lavoro, apprende eventualmente un mestiere, si mantiene da sé e aiuta la propria famiglia, sia per lo Stato, che paga meno per il suo sostentamento. E’ importante, inoltre, destinare una quota al risarcimento delle vittime, pari a 200-250 euro al mese. E’ una cifra simbolica che favorisce una presa di coscienza da parte dei detenuti, chiamati a rispondere personalmente dei loro atti non solo allo Stato, ma anche a chi hanno direttamente danneggiato”.

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